Il più recente approdo lirico di Antonio Di Nola è questo volumetto, in due parti, che prende il titolo da una lirica della Parte seconda, intitolata appunto Prefigurazione. Prima invocata nella richiesta orante di una ricompensa, la prefigurazione si dona finalmente alla visione, che è insieme credenza, del poeta, posto infine, come anelava ad ogni verso, più che ad ogni pagina, dinanzi a uno squarcio di cielo. Uno squarcio inesplicabile, da non varcare, ma di fronte al quale si può cercare almeno di vedere e, insieme, di credere, o meglio di credere di vedere, o anche di credere e vedere in esso,
Auerbach in una collana dell’Università di Istanbul, studiava, in vista della caratterizzazione figurale (qualcosa in più di allegorico) del viaggio dantesco nell’oltretomba. Egli, nella sua ricostruzione, partiva dalla cosiddetta interpretazione figurale della Bibbia nell’epoca medievale. Grazie ad essa, la figura – peraltro in continuità con la letteratura latina da Terenzio in poi – è insieme un elemento reale e storico, che non annulla mai un suo significato più profondo. Come osserva il cristiano Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, la Bibbia è piena di siffatte figure, per cui, ad esempio, il racconto della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù in Egitto è una “figura”, cioè una prefigurazione, di una “profezia reale” della liberazione dell’umanità dal peccato, che si adempie solamente post Christum natum; per cui, come nell’ombra, è dato d’intravvedere qualcosa che sarà chiaro soltanto in futuro.
Il poeta Di Nola adesso cerca, anzi invoca dall’alto la ricompensa, ovvero il dono del suo impegno a
cercare senza sapere di poter trovare, di una prefigurazione. E finalmente la richiesta posta nella lirica “Cieca è l’anima mia” della seconda Parte di questa raccolta, trova la sua risposta nella lirica “Prefigurazione”. In essa il poeta, sentendosi parte integrante dell’arca degli uomini che cerca di sfuggire al naufragio, approda a null’altro che al terribile squarcio. È questa la pre-figurazione invocata e, in questo senso, il cercare/interrogare/domandare dei versi diviene, appunto, figura di qualcosa che accade nell’anima: si tratta di ascendere, piuttosto che discendere lungo le vie della carne e del sangue, della terra e del basso; un dove da cui si può vedere e non vedere, si può salire, o meglio trasfigurare, o meglio ascendere, come lungo una scala – litania di parole2 sacre –, per approdare verso il regno delle assenze, non della luce, verso i simboli puri, che evocano e dicono senza rinvii alla mezza moneta materiale per il riconoscimento. Regno delle assenze laddove, pur avendo perso carne e mente, il poeta può dire: sono. Non nel senso moderno del cogito/sum, perché qui non si tratta di pensare, o figurare, o dimostrare, o approfondire; bensì nel senso che si va procedendo, senza mai varcare, quello squarcio, nell’ascensione compiuta nella speranza della comprensione, fino al punto che, insieme, si può dire col poeta «Credo e vedo,/ vedo e credo»..
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