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Il Direttore del Centro di Filosofia Italiana, prof. Aldo Meccariello, mi ha delegato in collaborazione col prof. Clemente, all'organizzazione del Festival di filosofia, dal 21 al 25 ottobre 2025, presso il polo universitario Jonico della città di Taranto, con tema "Oikjos. Dalla casa comune all'ecologia integrale". Aderiscono all’iniziativa la prof.ssa Franca Meola e la prof.ssa Mena Minafra dell'Università Luigi Vanvitelli di Caserta.      Il Direttore del Centro di Filosofia Italiana, prof. Aldo Meccariello, mi ha delegato in collaborazione col prof. Clemente, all'organizzazione del Festival di filosofia, dal 21 al 25 ottobre 2025, presso il polo universitario Jonico della città di Taranto, con tema "Oikjos. Dalla casa comune all'ecologia integrale". Aderiscono all’iniziativa la prof.ssa Franca Meola e la prof.ssa Mena Minafra dell'Università Luigi Vanvitelli di Caserta.

sabato 22 febbraio 2025

Carla Isernia. Una stella con il mare dentro


Carla Isernia. Una stella con il mare dentro [immagine di copertina di Mathelda Balatresi; fotografia di Katarzyna Mikołaiczyk], Gruppo editoriale Mauri Spagnol, Vignate (Milano), pp. 223. Recensione di Pasquale Giustiniani. 

Ti chiudo int’o serraglio! (ti chiudo in collegio). Ricordo ancora la minaccia periodica, che le mamme del mio cortile in san Pietro a Patierno, lanciavano in aria, quando il nostro gruppo di bambini e ragazzi esagerava nel chiasso o nelle liti: “Se non la smettete di farvi del male, vi chiudiamo nel serraglio»! Quel grido antico riecheggia ora nell’opera prima di Carla Isernia, nell’avvincente storia raccontata dalla fresca morta protagonista di questo bellissimo lungo racconto. Nel caso della protagonista Maria Giuseppa, Giuseppina - una donna, anzi una femmina, che prima del matrimonio non aveva mai fatto un bagno intero (confronta pagina 22) - fu il «compare sempre lui» che aveva consigliato «di farmi chiudere dentro al Reclusorio» (pagina 30) e suor Teresina - la faccia buona di una suora in mezzo al drappello di consacrate addette al reclusorio negli anni trenta dell’Ottocento – incrociandola al terzo piano, le domanda appunto: «Che male hai fatto, piccerè, per farti portare qua da tuo padre?» (pagina 31) Una che almeno da morta vuole uscire fuori dal Serraglio, per «andare a Santa Lucia a vedere il mare» (pagina 54). 2.    Il vero protagonista è il Reclusorio? Il Serraglio, dove arriverà Giacomino, quel chiavico (sporcaccione) voluto dalla madre per sua figlia (confronta pagina 61) dopo che «era stato caricato sopra un carro e portato all’Albvero dei Poverim ‘o Serraglio (all'abergo dei poveri, il reclusorio) Dissero che era ubriaco». La sposina non era del parere espresso dal padre su Giacomino: «Io ero sicuro che Giacomino non era ‘sta chiavica (sporcaccione) che dicevano loro, e io glielo avrei dimostrato» (pagina 70) anche se si dovrà convincere, dai fatti: «lo trovavano sempre circondato da femmine giovani e guagliuncelle (ragazzine) isso faceva ‘a rota d’o paone, chelle quattro lazzare c’ facevano addurà (lui si pavoneggiava e quelle bricconcelle si lasciavano corteggiare) (pagina 71).

Il Reclusorio con i suoi ambienti, i suoi odori acuti (puntualmente registrati dall’Autrice che è una chimico), è forse il vero protagonista del racconto di questo libro, con le sue scale, la sua direzione, le sue stanze delle suore, le dimore – tendenzialmente temporanee, ma spesso per sempre dei reclusi del territorio e, per quanto riguarda la morta fresca, coi suoi lavatoi in fondo al cortile, «le vasche, quattro da un lato e quattro dall’altro, stavano facceffronte (l'una di fronte l'altra) Quando pioveva, o faceva troppo freddo, lavoravamo in uno stanzone che stava abbascio a tutto (che stava giù in fondo) e che però non andava bene per togliere tutte le macchie perché la luce era poca» (pagina 37) Il Reclusorio con il suo refettorio, ovvero, a domanda risponde, «una stanza grossa assai addò mangiamo tutti insieme» (pagina 42) però «o soli masculi o solo femmene, ma tante nu centenaro, forse di più, più di quanti camminano dietro alla processione (o solo maschi o solo femmine, ma tanti. Un centinaio, forse di più. Certamente più di quanti vanno seguono la processione), (pagina 42). Con la stanza del direttore – che teneva l’ufficio e una stanza da letto per quando rimaneva al Serraglio - a cui faceva accedere «don Sigismondo Savastano, il segretario» (pagina 148), alquanto bavoso e grattoso (libidinoso). Insomma, un luogo dove «si governa una comunità che è grande come una città» (pagina 149). 

Il Real Albergo dei Poveri, costruito nel diciottesimo secolo per volontà del sovrano Carlo di Borbone (Madrid 1716-1788), su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga (Firenze 1699 - Roma 1781) e mai completato, è uno dei più grandi edifici settecenteschi d'Europa. I poveri del Regno erano troppi, non solo a Napoli, e le comunità caritatevoli cattoliche non riuscivano a sfamarli tutti; in più, fra papato e corte non scorreva buon sangue. Per aiutare i suoi più miseri sudditi, il sovrano commissionò all’architetto fiorentino un grandioso progetto: un gigantesco palazzo nel quale accogliere tutti gli sfortunati che avevano bisogno di un tetto sopra la testa, interamente finanziato dalle casse della monarchia: il Real Albergo dei Poveri non solo di Napoli, ma anche di Palermo. Carlo Borbone Farnese, quando nel 1734, dopo la vittoriosa campagna contro l’impero austriaco, il giovane principe, riconosciuto re anche per volontà del fratellastro Filippo di Spagna, si insediò a Napoli, le sue idee sul governo erano ben chiare: egli sarebbe stato un principe illuminato e non avrebbe ricalcato le orme delle vecchie monarchie dell’Ancien Régime, dotando il Regno di quelle infrastrutture necessarie al suo sviluppo. Nell’arco di poco tempo, anche grazie all’aiuto di Bernardo Tanucci, Carlo portò il Regno meridionale ai primi posti del mondo per dinamismo e trasformazione, per ricchezza e varietà delle arti e della cultura in generale. L’Albergo dei Poveri di Napoli, che doveva ospitare i cittadini economicamente non autosufficienti, ebbe le risorse del sovrano e della consorte, la quale vendette i propri gioielli, costando ben un milione dì ducati. «Un’idea bizzarra», scrive Antonio Ghirelli nella sua Storia di Napoli, «che rispecchia in modo emblematico la paternalistica, ma generosa, preoccupazione di Carlo per la felicità del suo popolo». Ben più positivo fu il giudizio di Giambattista Vico, il grande filosofo secondo il quale Carlo di Borbone incarnava la figura del sovrano ideale in una moderna “monarchia civile”. Il regno di Carlo terminò nel 1759, allorché dovette abdicare per assumere la corona di Spagna, lasciando il regno formalmente nelle mani del figlio minore ma, di fatto, dello stesso Tanucci che, fino alla maggiore età di Ferdinando, ne sarebbe stato il vero padrone Anche in Sicilia, nel corso del diciottesimo secolo s’incrementa l'assistenzialismo di pubblica emanazione, con l’obiettivo di ri-educare il povero per prevenire la mendicità. Si cerca di centralizzare il problema, richiamando l'attenzione sulla grave condizione della popolazione del Regno, pressato dall'emergenza demografica, economica e sociale. La lotta contro il vagabondaggio e l'ozio si inserisce a pieno titolo nei piani di riforma e il concetto di aiuto e soccorso diviene istituzionale e centrale per la politica durante il Regno di Carlo di Borbone, condiviso anche dal figlio Ferdinando. In tale contesto sociale, si inquadra la costruzione degli Alberghi dei Poveri di Palermo e di Napoli, realtà monumentali poste a ridosso degli abitati storici che si affiancano ai numerosi già esistenti reclusori, rifugi, conservatori, convitti di arti e mestieri. A Palermo se ne vedranno ancora gli effetti fino alla morte, avvenuta il 14 marzo 1888, di Giacomo Cusmano, prima medico e poi prete-fondatore dei Servi dei poveri. Egli lottava contro disdette d’ogni sorta e malattie mortali: il colera, per esempio, che in quegli anni più volte imperversò in Sicilia senza risparmiare le case del Boccone del Povero, ma anche la malattia che rese travagliati gli ultimi anni della sua vita e che lo condusse alla morte. «Scrivo a vapore»: con questa espressione ogni tanto egli intercalava le sue lettere, per dire ai suoi interlocutori l’urgenza da cui era sospinto a comunicare agli altri ciò che per ispirazione carismatica desiderava e sperava, pensava e progettava, sperimentava e pativa. Il Boccone del Povero – da lui inventato per dare un’anima ai grandi casermoni in cui il governo intruppava i poveri di Palermo, «consisteva nel raccogliere» per i poveri «dalle buone famiglie un boccone, da prelevarsi dal pasto giornaliero» – viene ricondotto entro la misura umile di quello che Cusmano definisce «un sol pensiero»: «E dico un sol pensiero – spiegava agli intellettuali e ai politici palermitani dalle colonne del giornale La Sicilia Cattolica del 18 gennaio 1873 –, poiché l’opera non richiede altro che un boccone di quella provvidenza che il Signore largisce, e tutto ciò che d’inservibile possa trovarsi nelle famiglie, come cenci, ossa, vetro, carta e financo le stesse mondiglie».


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