Le spine del Rosa di Daniela Marra è un romanzo storico che sorprende per la sua doppia anima: quella della ricerca rigorosa e quella dell’invenzione letteraria. Attraverso una scrittura calda, vivace, stratificata – ora narrativa, ora epistolare – l’autrice restituisce un Salvator Rosa credibile e insieme visionario, immerso nel magma incandescente della Napoli seicentesca.
È una città tesa, sovrappopolata, agitata da rivolte, complotti, superstizioni; una Napoli «spagnola» che lo storico Giuseppe Galasso definì paradossalmente incubatrice di modernità, proprio grazie al suo inserimento nel sistema dei regni iberici. Marra la dipinge come un teatro sovraccarico: plebei miseri accanto a nobiltà litigiose, botteghe e bassifondi, streghe e munacielli, fermenti politici che preannunciano l’incendio masanielliano del 1647.
Su questo palcoscenico, l’eruzione del Vesuvio del 1631 irrompe come un’Apocalisse. L’autrice descrive con precisione scientifica i fenomeni eruttivi – lo sbriciolarsi del cono, l’innalzarsi della colonna di cenere, i flussi piroclastici – e insieme lascia che la voce di Rosa interroghi, con dolore, il senso dell’arte davanti al disastro: «L’arte non salva. È un fuoco che divora». Il vulcano – Isso, nella lingua popolare – si placa solo davanti al prodigio del sangue di San Gennaro, intrecciando storia e credenza, scienza e rito.
Ma sono soprattutto le pagine sulla peste del 1656, narrate con una sensibilità quasi manzoniana, a segnare il cuore del libro. Napoli si svuota, i quartieri diventano fantasmi; la morte falcia amici, parenti, compagni di bottega. Rosa ne sente tutto il peso: «La peste li portò via condannando me a vivere nel dolore». È una riflessione che oggi appare inquietantemente attuale: le epidemie spogliano le città, ma spogliano anche le coscienze, lasciando intatta – o forse più acuta – la domanda sul senso del male.
Marra orchestra tutto questo con un senso del tempo narrativo che tiene insieme cronaca e mito, spiritualità e quotidiano, politica e incanto. Le spine del Rosa è così: un romanzo che punge, incide, fa sanguinare la memoria; e restituisce, in filigrana, la vitalità contraddittoria del Seicento napoletano, un’epoca in cui – come direbbe Salvator – «tutto ciò che è stato non sarà più», eppure continua a parlarci.
Domani. 30 novembre 2025 ore 11:30 ne discuteremo a Books & Museum – Santa Maria la Nova, dentro uno dei luoghi più stratificati e simbolici della nostra città.
Un’occasione per tornare, insieme, dentro quello stesso fuoco.

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