Vescovi bevitori nei sermoni di Cesario di Arles: quando l'ubriachezza divenne peccato capitale
Un vescovo contro l'ebbrezza del clero
Arles, V secolo d.C. La "Piccola Roma di Gallia" esportava vino di pregio in tutto l'impero, ma proprio questo fiorente commercio nascondeva un problema morale che avrebbe scosso la Chiesa tardo-antica: l'ubriachezza dilagante tra il clero, compresi i vescovi.
Cesario di Arles (470-543), monaco formato a Lérins e divulgatore di Agostino d'Ippona nelle Gallie, dedicò interi sermoni a combattere quello che definiva un "veleno del diavolo": il vizio del bere smodato, particolarmente diffuso tra i pastori che avrebbero dovuto guidare il gregge.
Dal calice eucaristico al calice dell'eccesso
La denuncia di Cesario è implacabile. Nei Sermoni 46 e 47 emerge un quadro desolante: vescovi che, invece di predicare, organizzavano conviti sontuosi sottraendo denaro ai poveri; chierici che costringevano gli ospiti a bere "in nome di santi e angeli", trasformando la venerazione in occasione di ebbrezza; prelati che trascorrevano notti intere in banchetti, arrivando al vomito e dovendo essere portati a letto da altri.
Il paradosso era evidente: quegli stessi vescovi che avrebbero dovuto essere "come mucche da latte" – vagando per i pascoli delle Sacre Scritture per nutrire i fedeli con il latte spirituale – si riducevano invece a organizzatori di masserie e curatori di vigneti, più attenti agli affari terreni che alla cura delle anime.
L'ebrietas accanto ad adulterio e omicidio
Cesario non esita a collocare l'ubriachezza accanto ai peccati più gravi. Citando San Paolo (1 Cor 6,9-10), ricorda che "né gli ubriaconi erediteranno il regno di Dio", equiparando questo vizio agli adulteri, agli idolatri e ai sodomiti. Il Concilio di Agde del 506, presieduto dallo stesso Cesario, vietò esplicitamente l'ubriachezza ai chierici, prevedendo trenta giorni di scomunica o pene corporali.
Il contesto: guerre, barbari e vino
La predicazione di Cesario si inscrive in un'epoca di drammatiche trasformazioni. Arles, capitale della Gallia sotto Costantino, attraversava nel V-VI secolo invasioni barbariche, assedi, dominazioni di Visigoti, Burgundi, Ostrogoti e Franchi. Le guerre del 507-509 devastarono le campagne circostanti, ma non fermarono il commercio vinicolo, che dalla Provenza raggiungeva Roma e l'Oriente.
È in questo scenario – dove la viticoltura gallo-romana prosperava accanto alle necropoli degli Alyscamps, dove Van Gogh avrebbe dipinto secoli dopo "La vigna rossa" – che Cesario combatte la sua battaglia morale.
La penitenza non può attendere il letto di morte
Con linguaggio "terra terra" (pedestri sermone), adatto ai contadini e ai poveri del suo gregge, Cesario usa immagini vivide: paragona gli ubriachi a "cloache maleodoranti" invece che a "vasi dal profumo delicato"; descrive corpi traballanti, occhi annebbiati, vertigini, tremori; denuncia la pratica di mangiare cibi eccessivamente salati solo per poter bere di più.
Ma soprattutto ammonisce: la penitenza richiesta sul letto di morte è "inferma", "malata", forse "morta essa stessa". La conversione va praticata quando si è in salute, sottraendosi poco alla volta al vizio inveterato, attraverso la ripetizione di esercizi virtuosi.
Eredità di un vescovo dimenticato e riscoperto
I Sermoni di Cesario, inizialmente attribuiti a uno "pseudo-Agostino" dai Mauristi, rappresentano oggi un laboratorio straordinario per comprendere il passaggio dalla teologia classica al Medioevo. La sua Regola per le vergini, accanto a quella agostiniana, ha marcato la storia del monachesimo occidentale.
La riscoperta contemporanea di questo vescovo – che visse la caduta dell'Impero d'Occidente, dialogò con re barbari, riscattò prigionieri e ricostruì città devastate – ci restituisce un cristianesimo tardo-antico alle prese con problemi sorprendentemente attuali: l'abuso di sostanze, la corruzione del clero, il conflitto tra ricchezza e povertà, la difficoltà di conciliare affari terreni e cura spirituale.
Dalle vigne di Arles, attraverso le parole di un vescovo determinato a strappare i suoi fedeli – e i suoi confratelli – dalla "cloaca dell'ubriachezza", emerge un ritratto vivido di un'epoca di transizione, dove il vino era insieme simbolo eucaristico e tentazione demoniaca, risorsa economica e rovina morale.
Questa analisi vuole illuminare un capitolo poco noto della storia ecclesiastica, dove l'etica dell'alimentazione si intreccia con la teologia morale e la storia sociale del Mediterraneo tardo-antico.

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