Gli scenari possono essere mostrati ed evocati, piuttosto che indicati e scritti. Tuttavia, un libro scritto è ben in grado di squadernare davanti agli occhi dell'anima i contorni di ciò che non è rappresentabile, non delimitabile, non finito appunto. L’altra metà dell’infinito è una silloge poetica di Luciano D'Angelo, docente di materie letterarie, è in grado di scandagliare il vissuto di chi la ha scritta e di suscitare intense emozioni nel lettore. Se Piergiorgio Odifreddi nell’immaginifico racconto contenuto nel suo libro: Ritratti dell’infinito. Dodici primi piani e tre foto di gruppo, Rizzoli 2020, ricorre a ben dodici accezioni di questa parola "infinito", organizzate nella forma di un dodecaedro, una figura tridimensionale che non ha un inizio e una fine, e che va girata e rigirata nelle mani per essere percorsa nella sua complessità, i versi di questo volumetto di D'Angelo sollecitano, invece, l'anima a saltare, a oltrepassare i piani cartesiani ortogonali, per transitare "nell'altra metà" del finito.
Certo, Il concetto matematico di infinito serve ad aiutarci ad immaginare uno spazio immensamente grande o un tempo che non può finire mai, al contrario di noi e di tutte le azioni che compiamo che sono limitate al posto dove ci troviamo e a determinati momenti nell'arco della durata della nostra vita. Ma il concetto poetico, anzi l'evocazione poetica, suggerisce, fa naufragare la fantasia, come ricordava Leopardi nella sua lirica, che lo vede di fronte a quest’ermo colle e questa siepe, che da tanta parte esclude lo sguardo dell'orizzonte. Per trovare l'altra metà oltre la siepe e attingere sovrumani silenzi e profondissima quiete; per ascoltare oltre lo stormire di queste piante e queste voci, per sovvenirsi dell’eterno, bisogna imparare ad annegare il pensiero tra questa immensità "E il naufragar m’è dolce in questo mare".
Da Brunella De Carlo riceviamo e grati pubblichia-mo, la recensione del prof. Domenico Massaro, scrittore e saggista, dirigente del Corso di Filosofia dell’Università dell’età libera di Arezzo, autore di manuali di Filosofia per i licei.
L'ultima raccolta di poesie che Luciano D'Angelo, professore di lettere,
poeta, ha dato alle stampe per i tipi di La valle del Tempo, ha un titolo sorprendente: "L'altra metà dell'infinito".
Un titolo immaginifico e suggestivo, che allude e rinvia all'oltre, da scrivere forse a lettere maiuscole. Un
Oltre che può abitare solo le immagini poetiche, è chiaro. ''L'altra
metà dell'infinito'', infatti, non può essere che infinita come la prima
metà: questo ci dice la rappresentazione matematica; ma non di questo si
tratta.
L'infinito che io sono, "la mia metà", anela
all'altra "metà dell'infinito", e in ciò si scopre fragile, precaria,
bisognosa di aprirsi al dialogo e alla relazione, all'Oltre, al divino,
physis o trascendenza che si voglia chiamare. Come nel mito del Simposio platonico, che è un inno ad Amore.
E Amore è per Luciano D'Angelo il genuino sentimento che muove e vivifica la sua poetica. Un
sentimento d'incompletezza che l'io del poeta - e dunque del lettore -
sente profondamente in sé stesso e lo porta a mettersi sulle tracce di
quei segni che gli Dei hanno lasciato agli uomini quando, nell'epoca
del dominio sfrenato della tecnica, sono andati via dalla Terra. Sono
fuggiti, ma non per sempre, perché di certo torneranno a illuminare le
ombre e a sollevare il velo d'inquetudine che ci affligge e ci spaventa,
chiudendoci nella finitezza delle gabbie dell'odio e della guerra.
Segni, si diceva, che parlano per lo più tacendo o semplicemente mostrando le divine orme che solo i poeti sanno riconoscere.
E
la cifra piu misteriosa della nostra esistenza si nasconde e rivela
proprio in quella "clessidra" che apre la silloge, a segnalare da subito
il mistero più insondabile della vita in una sorta di eterno ritorno:
"è solo un granello di tempo che si aggiunge all'infinito e noi restiamo
uguali capovolti come una clessidra ad aspettare di essere svuotati e
riempiti nello stesso istante".
Parole che riflettono altresì
quel sentimento d'inquietudine che ciascuno avverte, ma che la poesia
come la musica sanno placare, nel loro ufficio terapeutico che
l'autore assegna all'arte.
Riconoscere il male di vivere e le ombre della nostra paura per elevarci a speranza e futuro di vita.
Come
nella lirica, forse più bella della raccolta, che è un inno alla
maternità e alla vita che si rinnova in modo sorprendente e
meraviglioso.
Eccola:
"Il vento t'avvolse di mille petali
d'oriente e aromi di Saba, il mare sospirò e lasciò perle ornare il tuo
corpo. Tu, non capivi!
Non capivi, quando accarezzavi il ventre e sussurravi parole, sillabe d'amore sconosciute prima di allora.
Non capivi, quando per la prima volta il tuo sguardo ha incrociato il suo, miracolo di vita
ed eri li abbandonata all'amore. Non capivi, quando la notte eri sveglia, custode del suo sonno, del suo respiro.
Non capivi,
i suoi capricci, i suoi perché,
i suoi abbandoni,
i suoi silenzi.
Poi,
il vento nuovamente t'avvolse di petali profumati, lasciasti la mano di
Dio accarezzarti: eri madre infinitamente amore dono prezioso".
Orme
impresse sulla Terra sin dalle origini, segni ancestrali, archetipi
che il poeta nel tempo dell'incertezza ascolta nel suo profondo e
intravede in sogno o ricorda come la presenza del padre in "A mio
padre":
"Il passo della sera
Il tramonto
l'alba
poi vento libero. Invecchio a pensarti ma tu giovane rimani da lontano a spiarmi e corri inaspettato a rialzarmi
quando cado mentre gioco
con la vita".
E
proprio questo rialzarsi, dopo le inevitabili cadute, la cifra
esistenziale della bella raccolta che Luciano D'Angelo ci consegna con
parole ricche di immagini, come solo i poeti sanno fare e come mostra
la lirica "Contingenze", che invita, specie i ragazzi al coraggio di
vivere:
"Qualcosa mi turba, mi rende inquieto, talvolta infelice,
ma non desidero certo fermarmi. Lungo la strada, incontrerò la dualità
di tutto: non affretterò il passo, né mi fermerò. Sarà questo che mi
porterà a trovare l'altra parte del mio infinito".
Domenico Massaro
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