Dalla perdonanza al perdono Giubilare. Quaresimali online per insegnanti di religione
Chi e che cosa farsi perdonare.
Meditazione per il Gruppo Idr in uscita, venerdì 21 marzo 2025, ore 20.45)
Papa Francesco, nella Bolla d’indizione del primo Giubileo del terzo millennio, ricordava esplicitamente «la
grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si
recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei
giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII
istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia
giubilare della misericordia»1 . Fu, infatti, san Celestino quinto, con la Bolla Inter sanctorum solemnia, detta anche «Perdonanza»,
a concedere la prima indulgenza plenaria, di tipo “giubilare”, a tutti i
fedeli che visitassero la chiesa di S. Maria di Collemaggio a l’Aquila,
dai Vespri precedenti la memoria della decollazione di s. Giovanni
Battista - 28 agosto - ai Vespri della successiva medesima festa, 29
agosto. Di lì a pochi mesi, in Napoli, divenuta città pontificia per
la presenza del nuovo Papa, Celestino V abdicherà. Anche se la
«Perdonanza» di Pietro da Morrone sarà presto abrogata da papa Bonifacio
VIII, il 18 agosto 1295, Bonifacio se ne farà comunque ispirare per
l’istituzione dei Giubilei, sospendendo tutte le Bolle emesse dal
predecessore, e stabilendo di far celebrare il primo Giubileo
universale, appunto, il 25 marzo 1300, con cadenza allora prevista ogni
100 anni.
“Recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta”: sono alcune delle parole/motivazione dell’abdicazione di papa Celestino quinto, che sembra quasi volersi far perdonare
l’accettazione consapevole del papato: bisognava, insomma, recuperare
al più presto la consolazione della vita di prima, la vita da eremita:
ogni richiesta di perdono, ieri come oggi, è funzionale al ritorno a una
precedente vita beata, vita di luce e di beatitudine. Per l’ex Pietro
da Morrone si trattava del recupero di una vita il cui modello non
furono soltanto i padri del deserto, ma proprio Giovanni Battista, che
la Bolla celestiniana della perdonanza additava esplicitamente come “voce degli Apostoli”. Anche noi, specialmente in questo tempo frenetico e turbolento, in cui restiamo da soli patologicamente, come gli hichikomori, dobbiamo imparare a fare deserto, senza avere paura di restare soli in senso spirituale.
Secondo la verità delle fonti storiche, Pietro Angelerio da Morrone,
penultimo di dodici figli, presto orfano di padre, è avviato dalla
madre agli studi ecclesiastici. Attratto dalla vita monastica, entra
nell’Ordine benedettino. A 24 anni diviene presbitero, ma presto sceglie
la vita eremitica sul Monte Morrone, in Abruzzo. Preghiera,
penitenza e digiuno scandiscono le sue giornate. Attratti da lui, in
tanti lo seguono: presto nasce, con l’approvazione di Urbano IV, il
primo nucleo degli Eremiti della Maiella. In Europa si diffonde la fama
di Pietro da Morrone come uomo di Dio e a lui accorrono da ogni dove per
ottenere consiglio e guarigioni. A tutti indica la conversione del
cuore come via per la pace, in un momento storico dilaniato da tensioni,
conflitti - anche interni alla Chiesa - e pestilenze. La fama
dell’eremita, noto per i miracoli e l’integra condotta spirituale,
portano, i pochi cardinali elettori dell’epoca a individuare proprio in
lui il candidato ideale per il superamento dello stallo. Raggiunto nella
spelonca in Maiella da una delegazione di prelati, Pietro in un primo
momento rifiuta l’elezione a sommo Pontefice; poi comprende che è Dio a
chiamarlo a una responsabilità tanto alta. Tuttavia, respinge l’invito
dei cardinali a raggiungere Perugia e, il 29 agosto 1294, memoria di San
Giovanni Battista, scortato da re Carlo d’Angiò si reca a L’Aquila seduto su un asino, per ricevere la tiara papale nella grande chiesa di Santa Maria a Collemaggio, da lui eretta qualche anno prima.
Tra le cose di cui farsi perdonare, sia da parte di Celestino V che
da parte nostra, è il non saper imparare dall’asino: il racconto di Gesù
che entra a Gerusalemme cavalcando un’asina, è riportato da tutti e tre
i sinottici (Mt 21,1-11; Mc 11,1-11; Lc 19,29-40), che dimostrano il
profondo significato che i primi cristiani attribuivano a questo
avvenimento di Gesù che incede a cavallo di un’asina, che aveva da poco
partorito il suo puledro. La partenza dal villaggio di Betfage e
l’arrivo trionfale di Gesù a Gerusalemme a dorso di un’asina: cavalcando
l’asina, Gesù realizza la profezia del profeta messianico Zaccaria,
citato espressamente nel racconto di Matteo. Con la mandibola di un
asino, del resto, continua Bruno, il biblico Sansone distrusse i
Filistei (Gdc, 15, 15-16): e cosa avrebbe potuto ancora fare, annota
Bruno, con un asino vivo - di cui disporrà poi il Nazareno - se l’eroe
biblico riuscì a fare già tanto con una mandibola di un asino morto! Da
quella mascella d’asino sgorgarono le acque che hanno sanato popoli
errabondi! Appunto per questo, nelle carte astronomiche di Bruno,
l’asino con le ali occuperà un posto nella stella del Cancro. Pegaso, il
cavallo con le ali, è tra gli astri appunto per le labbra e la voce
veemente, quella che atterrisce con le parole dalla forza enorme ma pur
sempre finite e mondane e che genera nuove interpretazioni. Tra le cose
di cui farsi perdonare, sia da parte di Celestino V che da parte nostra,
è il non sapere imparare dall’asino: il racconto è riportato da tutti e
tre i sinottici (Mt 21,1-11; Mc 11,1-11; Lc 19,29-40).
Ma perché papa Pietro aveva indetto una Perdonanza? Chi
avrebbe dovuto chiedere perdono: i pellegrini, o lo stesso Papa che,
rinunciando, a Napoli in Castel Nuovo, al suo papato, sarebbe stato un
pavido, come voleva, forse, il Sommo poeta, ponendolo nell’Inferno degli
ignavi? Un recente studio sulla traslazione della santa Casa di Nazaret
a Loreto, ha concluso che Celestino aveva accettato di farsi nominare
Papa - il 5 luglio 1294 -, anche per portare a termine la traslazione
della santa Casa dalla Terra santa in Italia. Quindi, la vera rinuncia
non è quella di papa Celestino al seppur breve pontificato, bensì
potrebbe essere quella dell’eremita Pietro, che rinuncia alla vita
eremitica, anche a seguito di accordi con Carlo II d’Angiò circa la
santa casa di Nazaret.
Dirà in un’omelia di santa Marta papa Francesco: «C’è gente che vive
condannando gente, parlando male della gente, sporcando continuamente i
compagni di lavoro, sporcando i vicini, i parenti… Perché non perdonano
una cosa che hanno fatto a loro, o non perdonano una cosa che a loro
non è piaciuta. Sembra che la ricchezza propria del diavolo sia questa:
seminare l’amore al non-perdonare, vivere attaccati al non-perdonare. E
il perdono è condizione per entrare in cielo. La parabola che Gesù ci
racconta (cfr Mt 18,23-35) è molto chiara: perdonare. Che il
Signore ci insegni questa saggezza del perdono, che non è facile. E
facciamo una cosa: quando noi andremo a confessarci, a ricevere il
sacramento della Riconciliazione, prima chiediamoci: “Io perdono?”. Se
sento che non perdono, non devo fare finta di chiedere perdono, perché
non sarò perdonato. Chiedere perdono significa perdonare. Sono insieme,
ambedue».
1 Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, n. 5.
(Pasquale Giustiniani)
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