Armando Poggi – prete felicemente sposato con figli – racconta, in questo nuovo volume della collana "Scenari" sulla base delle domande e “provocazioni” di Pasquale Giustiniani, una fase molto effervescente del clero della Chiesa di Napoli nei primi anni del suo sacerdozio ordinato. Ecco, in breve, gli antefatti e i fatti narrati nel presente volume. Il giorno 12 aprile 1969 la Conferenza Episcopale Italiana procedeva allo spoglio delle schede relative alla votazione dei Vescovi. circa la Lettera dell’Episcopato Italiano su “La Missione dei Sacerdoti nel momento presente” (II stesura, datata 1.3.1969). Con soli 33 voti contrari su 225 votanti, la Lettera fu approvata. Si legge al n. 15 di questo testo: «Non è soltanto il problema del celibato sacerdotale, circa il quale non ignoriamo che esiste, accanto a tanta convinzione e generosità una diffusa inquietudine. Quanto ad esso, chiediamo agli incerti una coraggiosa sincerità nell’esaminare se il loro senso di solitudine derivi unicamente da questo motivo». I Vescovi italiani, seppur ancora discutendo del profilo dei membri del clero, si allineavano, in tal modo, alla decisa impostazione dell’enciclica di Paolo VI, “Sacerdotalis caelibatus”; ma non mancavano di osservare che sarebbe stato importante un esame serio e documentato dei concreti orientamenti che clero e fedeli esprimevano all’epoca a proposito del celibato sacerdotale, non senza notare che, purtroppo, al di là inchieste di tipo giornalistico o di ricerche di carattere approssimativo, non esistevano che pochissimi contributi di natura scientifica relativi a una possibile “sociologia” della condizione celibataria del sacerdote. La Lettera della CEI esaminava anche diversi titoli di teologi e storici, che in quegli anni andavano mettendo a tema la rilevanza di una discussione a tutto tondo sulla figura, il ruolo, il compito pastorale del prete nella Chiesa cattolica di rito latino.
Cultura contemporanea, metaverso, futuro ambientale, passione per l'essere umano, quale domani? Il blog discute in maniera indipendente la stagione di transizione in cui siamo tutti coinvolti, anche se non ce ne accorgiamo
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sabato 24 dicembre 2022
pianticelle divelte? Armando Poggi, prete sposato con figli racconta...
venerdì 23 dicembre 2022
Rene' Descartes, la lettera CXVII
Polemiche e Risposte alle polemiche, quali obiezioni proposte dal Descartes e dai suoi autorevoli ed abili confutatori intorno alle questioni agitate dalla Metafisica teologico-critica nel secolo XVII.
di Gaetano Origo
La lettera CXVII, inviata da Leida il 18 Marzo 1641 dal Descartes a Mersenne, contiene la proposta di correggere alcuni errori commessi dal Nostro nella lunga esposizione di contenuti rilevanti che si riferiscono alla esaminata concezione di Dio e del relativo riconoscimento positivo emergente dalla sua capacità di essere utilmente collocato nel mondo da lui creato. Ciò in virtù della edificata Metafisica che allo stato presente della narrazione dei fatti risulta incompleta per il subentrare di nuovi spiragli polemici, in quanto obiezioni costantemente promosse non solo dal Descartes, ma anche da parte di taluni dotti, tra i quali si annovera il giansenista Arnauld dotato di fine versatilità narrativa e di lucide sottigliezze speculative, il quale intende audacemente polemizzare con lui a proposito della costruenda concezione della positività divina riguardata espressamente dal punto di vista del suo agire efficace e completo. Le presenti obiezioni, pertanto, arricchite dalle relative risposte conferite dal Descartes a quelli che le hanno proposte, individuano il quadro complessivo dei problemi da esaminare a tutto campo, nessuno dei quali deve essere trascurato, vista e considerata l’abile tessitura con cui essi sono stati e sono al contempo presentati al pubblico degli uditori e degli studiosi, per andare a formare, secondo le veraci intenzioni acclarate da lui medesimo, l’intera costituzione essenziale dell’opera che è stata, nel frattempo, liberata dai refusi e dotata completamente di utili competenze necessarie per promuovere e per realizzare l’unità sistematica dallo stesso non solo vagheggiata, ma anche profondamente attuata.
lunedì 12 dicembre 2022
Paolo Becchi, diario di bordo
La narrazione intorno alla pandemia e alla conseguente vaccinazione sta sbriciolandosi ogni giorno che passa. Eppure nonostante tutte le evidenze resta difficile incidere nel dibattito pubblico. I grandi mezzi di informazione dovrebbero ammettere di aver raccontato frottole per due anni e non lo faranno mai. Probabilmente con un altro tipo di informazione non si sarebbe giunti al punto in cui siamo. Appunto la questione è: a che punto siamo?
Siamo al punto in cui la medicina ha perso la faccia. Chi crederà più in quello che ti dirà un medico dopo tutto quello che i medici hanno legittimato? Per la stragrande maggioranza dei cittadini la medicina si identifica con il volto dei medici che ogni giorno hanno visto in Tv e che hanno raccontato solo cose che in breve tempo di sono rivelate false.
Siamo al punto in cui il diritto ha perso la faccia. Chi nutriva ancora un briciolo di speranza, dopo la sentenza della Consulta l’ha persa. Chi crederà più nell’ organo di garanzia, dopo che la Corte ha dimostrato di voler salvare solo l’opera del governo.
Siamo al punto in cui morale e politica hanno rinunciato al loro ruolo per far spazio ad una versione dogmatica della scienza. La morale dice a volte che è necessario disobbedire e qui invece essa parlava di obbligo di vaccinarsi per un presunto bene collettivo. La politica ha abdicato al suo ruolo ed è diventata l’amministratrice di emergenze.
Ci vorrà tempo per prendere coscienza di tutto quello che è avvenuto. Ci vorrà il tempo lungo della storia. Persi nel cumulo delle notizie che si susseguono quotidianamente dimentichiamo presto i singoli passaggi di tutto quello che è stato. Solo lo storico con pazienza potrà ricostruire nel dettaglio tutto quello che è avvenuto.
La ferita ora è ancora aperta. Difficile dire se cicatrizzerà e come e quando.
domenica 11 dicembre 2022
L’altra metà dell’infinito
Gli scenari possono essere mostrati ed evocati, piuttosto che indicati e scritti. Tuttavia, un libro scritto è ben in grado di squadernare davanti agli occhi dell'anima i contorni di ciò che non è rappresentabile, non delimitabile, non finito appunto. L’altra metà dell’infinito è una silloge poetica di Luciano D'Angelo, docente di materie letterarie, è in grado di scandagliare il vissuto di chi la ha scritta e di suscitare intense emozioni nel lettore. Se Piergiorgio Odifreddi nell’immaginifico racconto contenuto nel suo libro: Ritratti dell’infinito. Dodici primi piani e tre foto di gruppo, Rizzoli 2020, ricorre a ben dodici accezioni di questa parola "infinito", organizzate nella forma di un dodecaedro, una figura tridimensionale che non ha un inizio e una fine, e che va girata e rigirata nelle mani per essere percorsa nella sua complessità, i versi di questo volumetto di D'Angelo sollecitano, invece, l'anima a saltare, a oltrepassare i piani cartesiani ortogonali, per transitare "nell'altra metà" del finito.
Certo, Il concetto matematico di infinito serve ad aiutarci ad immaginare uno spazio immensamente grande o un tempo che non può finire mai, al contrario di noi e di tutte le azioni che compiamo che sono limitate al posto dove ci troviamo e a determinati momenti nell'arco della durata della nostra vita. Ma il concetto poetico, anzi l'evocazione poetica, suggerisce, fa naufragare la fantasia, come ricordava Leopardi nella sua lirica, che lo vede di fronte a quest’ermo colle e questa siepe, che da tanta parte esclude lo sguardo dell'orizzonte. Per trovare l'altra metà oltre la siepe e attingere sovrumani silenzi e profondissima quiete; per ascoltare oltre lo stormire di queste piante e queste voci, per sovvenirsi dell’eterno, bisogna imparare ad annegare il pensiero tra questa immensità "E il naufragar m’è dolce in questo mare".
Da Brunella De Carlo riceviamo e grati pubblichia-mo, la recensione del prof. Domenico Massaro, scrittore e saggista, dirigente del Corso di Filosofia dell’Università dell’età libera di Arezzo, autore di manuali di Filosofia per i licei.
L'ultima raccolta di poesie che Luciano D'Angelo, professore di lettere,
poeta, ha dato alle stampe per i tipi di La valle del Tempo, ha un titolo sorprendente: "L'altra metà dell'infinito".
Un titolo immaginifico e suggestivo, che allude e rinvia all'oltre, da scrivere forse a lettere maiuscole. Un
Oltre che può abitare solo le immagini poetiche, è chiaro. ''L'altra
metà dell'infinito'', infatti, non può essere che infinita come la prima
metà: questo ci dice la rappresentazione matematica; ma non di questo si
tratta.
L'infinito che io sono, "la mia metà", anela
all'altra "metà dell'infinito", e in ciò si scopre fragile, precaria,
bisognosa di aprirsi al dialogo e alla relazione, all'Oltre, al divino,
physis o trascendenza che si voglia chiamare. Come nel mito del Simposio platonico, che è un inno ad Amore.
E Amore è per Luciano D'Angelo il genuino sentimento che muove e vivifica la sua poetica. Un
sentimento d'incompletezza che l'io del poeta - e dunque del lettore -
sente profondamente in sé stesso e lo porta a mettersi sulle tracce di
quei segni che gli Dei hanno lasciato agli uomini quando, nell'epoca
del dominio sfrenato della tecnica, sono andati via dalla Terra. Sono
fuggiti, ma non per sempre, perché di certo torneranno a illuminare le
ombre e a sollevare il velo d'inquetudine che ci affligge e ci spaventa,
chiudendoci nella finitezza delle gabbie dell'odio e della guerra.
Segni, si diceva, che parlano per lo più tacendo o semplicemente mostrando le divine orme che solo i poeti sanno riconoscere.
E
la cifra piu misteriosa della nostra esistenza si nasconde e rivela
proprio in quella "clessidra" che apre la silloge, a segnalare da subito
il mistero più insondabile della vita in una sorta di eterno ritorno:
"è solo un granello di tempo che si aggiunge all'infinito e noi restiamo
uguali capovolti come una clessidra ad aspettare di essere svuotati e
riempiti nello stesso istante".
Parole che riflettono altresì
quel sentimento d'inquietudine che ciascuno avverte, ma che la poesia
come la musica sanno placare, nel loro ufficio terapeutico che
l'autore assegna all'arte.
Riconoscere il male di vivere e le ombre della nostra paura per elevarci a speranza e futuro di vita.
Come
nella lirica, forse più bella della raccolta, che è un inno alla
maternità e alla vita che si rinnova in modo sorprendente e
meraviglioso.
Eccola:
"Il vento t'avvolse di mille petali
d'oriente e aromi di Saba, il mare sospirò e lasciò perle ornare il tuo
corpo. Tu, non capivi!
Non capivi, quando accarezzavi il ventre e sussurravi parole, sillabe d'amore sconosciute prima di allora.
Non capivi, quando per la prima volta il tuo sguardo ha incrociato il suo, miracolo di vita
ed eri li abbandonata all'amore. Non capivi, quando la notte eri sveglia, custode del suo sonno, del suo respiro.
Non capivi,
i suoi capricci, i suoi perché,
i suoi abbandoni,
i suoi silenzi.
Poi,
il vento nuovamente t'avvolse di petali profumati, lasciasti la mano di
Dio accarezzarti: eri madre infinitamente amore dono prezioso".
Orme
impresse sulla Terra sin dalle origini, segni ancestrali, archetipi
che il poeta nel tempo dell'incertezza ascolta nel suo profondo e
intravede in sogno o ricorda come la presenza del padre in "A mio
padre":
"Il passo della sera
Il tramonto
l'alba
poi vento libero. Invecchio a pensarti ma tu giovane rimani da lontano a spiarmi e corri inaspettato a rialzarmi
quando cado mentre gioco
con la vita".
E
proprio questo rialzarsi, dopo le inevitabili cadute, la cifra
esistenziale della bella raccolta che Luciano D'Angelo ci consegna con
parole ricche di immagini, come solo i poeti sanno fare e come mostra
la lirica "Contingenze", che invita, specie i ragazzi al coraggio di
vivere:
"Qualcosa mi turba, mi rende inquieto, talvolta infelice,
ma non desidero certo fermarmi. Lungo la strada, incontrerò la dualità
di tutto: non affretterò il passo, né mi fermerò. Sarà questo che mi
porterà a trovare l'altra parte del mio infinito".
Domenico Massaro